Da Lizzola alle “Case Rosse” della Manina

Il 27 settembre del 1944, quaranta partigiani delle formazioni di Giustizia e Libertà, guidati da Giuseppe Gasparini “Nino” e da Fortunato Fasana “Renato”, sbucano all’alba dalle miniere di ferro della Manina e assaltano il presidio tedesco, installato nel caratteristico lungo edificio rosso, che sovraintendeva i lavori di fortificazione condotti dalla Todt, nel tratto bergamasco della Blaue Linie, eretta a difesa del Reich. L’obiettivo, riuscito, è di fare un ricco bottino di armi, equipaggiamenti, viveri. I partigiani fanno prigionieri tutti i tedeschi presenti e si ritirano. “A noi bastava l’azione improvvisa, e poi ritirarci” commentò Bepi Lanfranchi. Impensabile tentare di mantenere il presidio della fortificazione, anche per il timore di rappresaglie sulla popolazione, che in realtà non subiva fastidi dalla presenza tedesca, che dava lavoro a molti operai. La nostra gita parte da Lizzola, sale al passo della Manina – spettacolare il panorama - e scende al complesso minerario, ora rifugetto. Per il ritorno, lungo o breve, non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Località di partenzaLizzola, 1259 m
Località di arrivorifugio Case Rosse, 1637 m
Segnavia307 - 408
Tempo di salita2 h
Riparino
Acquano
CartinaKompass n.194; Cai-Provincia n. 3

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Il sentiero, che si imbocca nella zona degli impianti di sci per bambini nella parte alta di Lizzola (indicazioni), entra nel bosco e lo risale fino a sbucare al pianoro presso la baita dell'Asta Bassa (1426 m). Prosegue poi per un ripido pendio erboso che conduce con numerosi tornantini al visibile passo della Manina (1799 m). Poco sopra, a quota 1821 m, sorge dal 1949 una chiesetta con due croci e due altari identici, uno rivolto verso la val di Scalve e l’altro verso Lizzola. Dal passo transita il Sentiero delle Orobie Orientali, nella tappa dal rifugio Curò al rifugio Albani, verso la dominante Presolana. Una piastra posta a ricordo dell’alpinista Mario Merelli segnala le cime visibili dallo spettacolare punto di osservazione.

Da qui il sentiero 408 – ma si scende anche a vista – cala nei pascoli della valle del Nembo, fino a raggiungere la caratteristica lunga costruzione rossastra sulle pendici del monte Sasna (1637 m, fontana), utilizzata un tempo dai lavoratori delle miniere, le cui tracce sono visibili sull’altro versante della valle. Miniere da cui sbucarono di sorpresa i partigiani nel vittorioso assalto al presidio tedesco. Il complesso è oggi adibito a rifugio “Case Rosse” del Gruppo Alpinistico Celadina (tel. 345.4125462 - tel. 349.5131726). Una lapide ricorda l’azione partigiana.

L’estrazione del ferro in questa area, risalente all’epoca romana, diventò l’economia trainante dell’intera val di Scalve, favorendo lo sfruttamento di altre risorse naturali, in particolare le foreste per la produzione del carbone, indispensabile alla lavorazione del minerale. Le miniere furono particolarmente attive durante la seconda guerra mondiale fino al 1944, quando furono chiuse; riaprirono di nuovo nel 1952 per essere definitivamente smantellate negli anni ‘70. Nei pressi sono ancora ben visibili gli imbocchi, le discariche e i resti di una polveriera. Si valuta in 30 km l’estensione delle gallerie minerarie, realizzate su 13 livelli.

La gita può continuare con un’ampia serie di possibilità.

Per chi non ha necessità di rientro a Lizzola, la prima è scendere con la carrareccia fino a Nona (1339 m) e rientrare dalla val di Scalve. Oppure, risaliti al passo della Manina, si può proseguire sul sentiero 401 per il rifugio Albani (1939 m, tel. 0346.51105 - tel. 340.2361279 - email: majspirit@live.it - www.rifugioalbani.com) da cui si può scendere su Colere, sempre in val di Scalve, oppure tramite il passo dello Scagnello (2080 m) in Valzurio e quindi a Villa d’Ogna.

Per rientrare invece a Lizzola, effettuando così un itinerario ad anello, si può seguire dal passo il Sentiero delle Orobie (segnavia 304) in direzione del rifugio Curò, costeggiando il monte Sasna e scendendo nella valle Bondione; giunti al torrente, a quota 1600 circa, si torna a Lizzola con il sentiero 322.

Si può seguire il tracciato che una parte dei partigiani ha fatto salendo: si imbocca il Sentiero delle Orobie in direzione opposta a quella appena citata (segnavia 401), giungendo alle pendici del monte Barbarossa, dove lo si abbandona prendendo il 309 proprio sopra il laghetto Spigorel. Da lì si scende per la splendida e fresca val Sedornia fino ai Tezzi Alti (una delle tante basi partigiane dell’alta valle) e quindi a fondo valle.

Un’impresa temeraria

Nella primavera del ‘44 i tedeschi avevano iniziato a costruire una fortificazione a difesa dei confini meridionali del Reich. La Blaue Linie, si chiamava. Era una sorta di Linea Cadorna, fatta per fermare un’eventuale avanzata degli Alleati e assicurarsi la via di fuga, in attesa dell’arma finale progettata da Hitler. In Italia doveva estendersi per circa quattrocento chilometri, partendo dai confini sudorientali svizzeri, collegando lo Stelvio con il lago di Garda, la zona a nord di Belluno, proseguendo poi lungo le Alpi Giulie e da lì verso Gorizia, avvalendosi in alcune zone delle opere difensive italiane ed austroungariche già esistenti dalla Grande Guerra. Il tratto bergamasco è così descritto da Bepi Lanfranchi: “I tedeschi avevano fatto tutta la fortificazione a partire dalla Cantoniera della Presolana per sbucare in val di Scalve. Dalla Cantoniera la fortificazione saliva allo Scanapà, al colle di Vareno, alla cima del Pora... ma soprattutto era sullo Scanapà che avevano concentrato i bunker. Sopra l’Albergo Grotta verso i Cassinelli e verso il Cornetto c’erano tutte postazioni interrate e avevano fatto un vallo anticarro nei prati sotto il Grotta. … insomma dalla cima del Pora era tutta una corona di fortificazioni per proteggere la valle”. Bepi Lanfranchi, “Testimonianza sulla Brigata G.L. ‘Gabriele Camozzi’”, in Studi e ricerche di storia contemporanea, n. 11, 1978

L’azione della Manina è descritta con toni aulici dal comandante “Renato”: “Dominava gli scoppi e il crepitio delle armi automatiche, la voce secca possente della nostra Breda. Stabiliti i collegamenti tra le quattro squadre, il nemico viene circondato. Il fuoco si fa più violento, gli scoppi delle granate a mano si fanno più frequenti, poi tutto si smorza: ancora qualche colpo isolato, rauchi urli di gioia. I partigiani della Camozzi ancora una volta hanno vinto. (…) Edmondo, il biondo mitragliere, è ancora là sulla sua Breda legato ad essa in un ultimo abbraccio mortale con negli occhi la luce che hanno gli eroi nell’atto supremo. Qualche ferito si trascina con rose di sangue sulle bende del pronto soccorso. Il sole era già alto, quando la lunga colonna di partigiani e prigionieri prese la via del ritorno. (…) L’accompagnavano frequenti boati: era la dinamite che alle teleferiche, sulle piazzole nelle costruzioni distruggeva definitivamente le opere campali. Ed ai magazzini svaligiati serpeggianti e dense colonne di fumo narravano del nostro passaggio, della Odissea partigiana di ogni ora e di sempre”.

Renato, “Dal taccuino di un fuorilegge”, in Angelo Bendotti, I giorni alti. Bepi Lanfranchi e i suoi compagni, Il filo di Arianna, Bergamo, 2011, p. 119.