Per noi, una lunga e inedita passeggiata sul confine nord della provincia. Un’impresa, per i partigiani della brigata “Cacciatori delle Alpi - 2° Dio sciatori”, che utilizzarono questo percorso per assaltare di sorpresa il corpo di guardia della diga del Venina, sul versante valtellinese delle Orobie. Un’azione andata a buon fine, senza spargimento di sangue e con un buon bottino per i “nostri”, che utilizzarono i prigionieri fascisti per trasportare il materiale fino al rifugio Longo e poi li lasciarono andare liberi, nella felice incredulità dei “salvati”. Dopodiché i partigiani si presero in groppa tutto il bagaglio per tornare alla base di Foppolo.
Località di partenza | Foppolo, 1508 m |
Località di arrivo | lago Venina, 1820 m |
Segnavia | 205 - 208 - 209 - 224 - 254 |
Tempo di salita | 7 h 30' |
Ripari | sì |
Acqua | sì |
Cartina | Kompass n.104; Cai-Provincia n. 2 |
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Dal piazzale degli alberghi di Foppolo, si sale in direzione nord-est sul sentiero 205, tratto del Sentiero delle Orobie occidentali, verso la "Quarta baita" (1824 m). Da qui si continua piegando a destra (sud-est) seguendo la stradina che, risalendo il vallone, conduce al passo della Croce (1953 m).
Dal passo si prosegue sul sentiero 208 in direzione est e poi sud, mantenendosi sempre in quota. Si contorna con ampio giro la parte alta della conca di Carisole. Oltrepassati gli ultimi impianti di risalita, il sentiero sale brevemente al costone (2110 m circa) che si affaccia sulla valle del fiume Brembo. Si scende quindi in val Sambuzza, si attraversa il torrente e si risale a prendere il sentiero 209 che si segue in discesa fino alla baita Casera (1738 m). Si prosegue in quota verso est raggiungendo il rifugio Baitone (1778 m) e si scende al lago del Prato (1650 m). Da qui, svoltando a sinistra prima del ponticello, si segue (segnavia 224, qui si abbandona il Sentiero delle Orobie che prosegue verso il rifugio Calvi) la strada forestale che guadagna quota, dapprima con qualche tornante e poi con percorso a mezzacosta, risalendo la valle del Sasso fino al rifugio Fratelli Longo (2026 m).
Prima di raggiungerlo, sulla sinistra (a quota 1920 m) si stacca il sentiero 254 che porta al passo di Venina. Il sentiero sale con decisione su tornanti, giungendo ai prati di baita Masoni (2093 m). Da quest'ultima si continua a salire il pendio in un ambiente ora più roccioso, sino a guadagnare il crinale con la Valtellina a quota 2509 m. Il sentiero continua, ancora in direzione est, restando appena al di qua del crinale. In leggera discesa su traverso - dopo un divertente tratto finale tra semplici roccette - si giunge infine al passo di Venina (2438 m), dal quale si scende sul versante valtellinese al lago di Venina (1817 m), dove la casa dei custodi fu teatro dell’azione partigiana.
Dopo circa 30' di discesa, all’incrocio con la GVO (Gran Via delle Orobie, 2229 m) si giunge a un vecchio forno fusore: è il più grande delle Orobie, in buono stato di conservazione e merita sicuramente una visita. Serviva alla cottura del minerale ferroso estratto nelle cave della vicina "vena", giacimento di ferro che diede origine al nome della valle (Venina = vena, di minerale). Sebbene l'estrazione del ferro orobico fosse iniziata già in epoca preromana, il periodo di maggior attività mineraria si ebbe durante il Medioevo. Il ferro estratto veniva in parte lavorato in loco e in parte trasportato in valle del Livrio attraverso il Passo dello Scoltador, probabilmente per la maggiore disponibilità di legname, indispensabile per le prime fasi di lavorazione del materiale ferroso. La prima lavorazione del ferro richiedeva la combustione di grandi quantità di legna, e questo spiega come mai la Val Venina abbia un limite boschivo molto più basso rispetto alle altre valli orobiche.
Il ritorno dal lago di Venina alla strada del rifugio Longo è sullo stesso percorso dell’andata. Si può quindi scegliere di sostare al Longo (2026 m, tel. 0345.77070 - tel. 338.3192051 - enzomigliorini@virgilio.it), proseguire per il rifugio Calvi (2020 m, tel. 0345.77047 - tel. 349.6804893 - claudio.bagini@infinito.it), tornare a Carona sulla strada forestale (segnavia 210) o a Foppolo per lo stesso itinerario dell’andata.
Caricati come muli
“Così, il 21 giugno partimmo per quella località. Io Mino Bartoli ero armato di pistola Beretta, Sandro Mascheroni, Ercole Pedretti e Mario Carletti di sten e Mario Berera di solo coltello, mentre Mario Carletti aveva il compito di disarmare la sentinella. La nostra meta era piuttosto lontana da Foppolo e la trasferta alpinistica richiedette infatti ben tredici ore di marcia. Nel pomeriggio arrivammo nelle vicinanze della meta e ci nascondemmo. Verso sera ci raggiunse Fulvio Berera, che ci aveva preceduti e ci ragguagliò sulla situazione del presidio, indicandoci la posizione della sentinella e l’ora nella quale i militi si sarebbero radunati in una saletta per giocare a carte. Fissammo così l’ora dell’azione, per le ventitrè. In questi casi la sorpresa è determinante ed anche la persona più coraggiosa può venire anche per un solo istante paralizzata e quando si riprende è oramai troppo tardi. Mentre Mario Carletti disarmava la sentinella con estrema facilità, noi irrompemmo della saletta, facendo la voce più grossa possibile e tutti i militi alzarono le mani. Ci facemmo consegnare le armi e ci accorgemmo che all’appello mancavano due militi. Ubriachi, si erano asserragliati nella camerata ed all’invito dei loro compagni di aprire e di arrendersi perché erano arrivati i partigiani, pensavano si trattasse di uno scherzo. Rispondevano con frasi del tipo: “i partigiani l’avranno a che fare con noi!”. Ma quando dallo spiraglio della porta, fecero spuntare la canna di un’arma, che io afferrai, si accorsero che non si trattava di uno scherzo e per incanto la loro sbornia cessò e si arresero. Il bottino in armi e munizioni fu abbastanza consistente, tanto da poter armare l’intera formazione, ma esisteva ancora il problema del trasporto che risolvemmo in parte, obbligando i militi stessi a provvedere, suddividendo i carichi in modo che chi ad esempio portava i moschetti non avesse né gli otturatori né le munizioni. (…)
E così, nella notte senza luna, rischiarati dalle lampade ad acetilene dei guardiani della diga che si erano offerti di accompagnarci, ci incamminammo verso i 2500 metri del passo Venina. Ad un certo punto, per il freddo e per l’emozione, il loro comandante si sentì male e per coprirlo tolsi dal mio zaino un impermeabile, dono di mia zia, che conservavo con cura perché rappresentava il miglior capo di vestiario che avessi mai avuto. Ma a quella quota, con un sentiero poco marcato e nel buio, sbagliammo strada e il sergente di Colico ne approfittò e fuggì, senza naturalmente restituirmi l’impermeabile. Al mattino raggiungemmo il piazzale del rifugio Longo, non molto distante dal Calvi e feci depositare per terra i carichi. Strinsi la mano ai diciassette militi e li congedai. Erano sbalorditi da un simile trattamento e stentavano a credere. Poi in preda a contentezza, saltando dalla gioia, partirono per il ritorno. Voglio a questo punto ribadire che lo spirito che ci animava non era la vendetta, ma semplicemente un desiderio di libertà e se poi in seguito il nostro atteggiamento è cambiato, ciò è stato determinato da quello dei fascisti, con le loro torture di ogni genere, prima della fucilazione. Questa forma disumana non l’abbiamo mai impiegata.
Per non far conoscere a quei fascisti l’ubicazione della nostra base, una volta arrivati a Foppolo avremmo anche potuto sterminarli. Invece, una volta congedati, ci siamo sobbarcati l’inumana fatica di trasportare da soli, anche il carico che avevamo loro affidato”.
Mino Bartoli, La zia nell’armadio. Cacciatori delle Alpi 2° Dio sciatori. Storia di una brigata partigiana di Giustizia e Libertà, Stamperia Fumagalli, Ranica, 2000, pp. 28-29.